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Palestina chi sei e dove sei

La Palestina non è mai stata una nazione. Non aveva lingua distinta, non aveva tradizioni uniche, non aveva uno stato. Era un pezzo di Levante come tanti, popolato da arabi che parlavano lo stesso dialetto dei siriani e dei giordani, che vivevano di clan, villaggi e qualche città mercantile. 
Nessuno, prima del 1948, parlava di “palestinesi” come popolo politico. È la nascita di Israele a creare la Palestina. O meglio: è la sconfitta araba del 1948, la Nakba, a trasformare un insieme di comunità in un’identità nazionale. Senza Israele, la parola Palestina sarebbe rimasta una denominazione geografica sulle mappe del mandato britannico. Il paradosso si vede subito. Gli stati arabi si lanciarono in guerra proclamando che avrebbero annientato Israele. Furono sbaragliati. Israele non solo sopravvisse, ma vinse. Ma poiché ammettere il fallimento era politicamente impossibile, si scelse un’altra via: ribaltare la narrazione. Israele non aveva sconfitto cinque stati arabi incapaci e divisi, ma aveva cacciato un popolo inerme dalle proprie case. Ecco la Palestina, partorita dalla disfatta, utile come alibi e come bandiera. La guerra fredda trasformò questa invenzione in mito. L’Unione Sovietica, dopo aver inizialmente favorito la nascita di Israele per indebolire Londra, abbracciò la retorica antisionista e fece della Palestina il simbolo di una lotta anticoloniale globale. Poco importava che non fosse mai esistita come nazione: serviva un Davide contro il Golia occidentale. Così Israele, che aveva vinto sul campo, divenne sulla carta un mostro coloniale, mentre i palestinesi, mai stati un popolo politico, si trasformarono in vittime eterne, buone per i cortei studenteschi in Occidente e per la propaganda sovietica. Qui arriva l’unicum storico: l’assistenza perpetua delle Nazioni Unite. Nel secolo degli esodi, milioni di persone furono sradicate: tedeschi dall’Est Europa, greci e turchi scambiati, indiani e pakistani divisi col sangue, ebrei cacciati dai paesi arabi. Tutti, in un modo o nell’altro, furono integrati altrove. Non i palestinesi. Per loro, l’ONU creò un’agenzia speciale, l’UNRWA, che da 75 anni perpetua lo status di rifugiato e lo trasmette di generazione in generazione. Campi che dovevano essere provvisori sono diventati città permanenti, incubatori di rancore e di militanza. Nessun altro popolo ha avuto questo privilegio: un’assistenza infinita, trasformata in una condanna. E non finisce qui. Perché miliardi di dollari di fondi ONU e occidentali, destinati a scuole, ospedali e infrastrutture civili, sono stati regolarmente dirottati da Hamas per scavare tunnel, accumulare armi, costruire arsenali. Gaza, uno dei territori più sussidiati del pianeta, è anche il luogo dove gli aiuti umanitari si trasformano in missili e cemento per basi sotterranee. Il denaro che avrebbe potuto dare un futuro a una generazione intera è stato usato per blindare il presente nella guerra eterna. Così la Palestina resta sospesa: popolo reale ma al tempo stesso mito politico, nazione senza stato e senza tratti distintivi, congelata da decenni di assistenza che non risolve, ma alimenta. Israele ha vinto tutte le guerre, ma i palestinesi hanno vinto la battaglia del racconto: sono rimasti le vittime sacre, indispensabili per salvare la faccia dei regimi arabi, per la propaganda sovietica di ieri, per il senso di colpa occidentale di oggi. Vittime funzionali, mai liberate, mai integrate, sempre mantenute in un limbo. Ecco il vero scandalo: non è Israele a condannare i palestinesi a un destino senza fine, ma l’uso politico e perverso della loro condizione. I fondi che dovrebbero emanciparli li tengono prigionieri. Le guerre che dovevano liberarli li hanno resi pedine. La Palestina è l’unico caso della storia moderna in cui un popolo non vive per sé, ma per alimentare una narrazione che serve a tutti gli altri.

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