Settantacinque anni fa, Israele nasceva come uno Stato assediato. Erano 650.000 persone, poche armi, nessuna protezione. Attorno, sette eserciti arabi pronti a cancellarlo dalla mappa. Doveva essere un esperimento destinato a fallire. Non è andata così.
La storia ebraica è una sequenza di persecuzioni, esili, pogrom. Babilonia, Roma, la Spagna del 1492, la lunga notte dei ghetti in Europa, fino al punto più basso: l’Olocausto, sei milioni di morti. Eppure, di fronte alla volontà sistematica di annientarli, gli ebrei hanno risposto con la sopravvivenza. Non è un miracolo, è una costanza che sfida ogni previsione: ci si poteva aspettare la dispersione definitiva, invece è nata una nazione.
Gerusalemme racconta la stessa storia. Conquistata, distrutta, saccheggiata. Babilonesi, Romani, Crociati: ognuno ha tentato di spezzare il filo. Ma il legame non si è mai interrotto. Per gli ebrei resta il centro, la bussola, il cuore che non smette di battere. Lo era tremila anni fa, lo è ancora oggi.
Il piano ONU del 1947 assegnava terre aride, deserti che sembravano inutilizzabili. Ma lì Israele ha costruito città, università, laboratori. Ha inventato tecniche agricole che hanno reso fertile il Negev, ha creato un polo tecnologico che oggi detta legge in medicina, cibernetica, agritech. Il paradosso è questo: da un popolo ridotto in polvere è nato un Paese che esporta innovazione, cultura, scienza.
Eppure la sopravvivenza non è stata mai data per scontata. Saddam Hussein e Gheddafi hanno invocato la sua distruzione, Hamas e Hezbollah ne fanno un obiettivo dichiarato, l’Iran continua a parlare di cancellarlo dalla carta geografica. Israele resta una nazione costantemente sotto assedio, non per ciò che fa ma per ciò che è: l’unico Stato ebraico in un Medio Oriente che ancora fatica a tollerarlo.
La narrazione ufficiale spesso si concentra sui conflitti, sulle guerre vinte o perse, ma la vera storia è quella di una presenza che resiste. Nonostante l’odio, nonostante le campagne di delegittimazione, nonostante la propaganda che lo dipinge come intruso. Israele non è un incidente geopolitico: è la continuazione di un’identità che né persecuzioni né genocidi hanno saputo estinguere.
Il messaggio che arriva da questa sopravvivenza è semplice e scomodo: chi ha tentato di distruggere gli ebrei non c’è più. Babilonia è cenere, Roma è memoria, i regni arabi che nel 1948 volevano annientarlo sono stati battuti o ridimensionati. Israele, invece, è ancora lì. Non perfetto, non immune da errori, ma vivo.
La storia ebraica non è solo una cronaca di sofferenza, è la dimostrazione che la volontà di sopravvivere può trasformare un popolo senza patria in uno Stato moderno. A chi continua a profetizzarne la fine, la risposta è già scritta: in tremila anni di assedi, espulsioni e massacri, Israele è stato colpito, ma mai cancellato. E non lo sarà nemmeno questa volta.
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