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CONTRADDIZIONI SULLE CURE

Mentre il mondo parla solo di guerra e occupazione, c’è un dato che rompe la narrazione: decine di migliaia di palestinesi, ogni anno, trovano cure negli ospedali israeliani. Sessant’anni di conflitti, accuse, intifade e negoziati falliti. Eppure, nel mezzo di questo campo minato politico, c’è una storia che non entra mai nei cortei, non passa nei talk show, non diventa hashtag. La storia dei palestinesi che si curano in Israele. Non stiamo parlando di casi isolati, ma di numeri enormi. Ogni anno, circa 100 mila pazienti palestinesi accedono a cure specialistiche negli ospedali israeliani o in quelli di Gerusalemme Est. Non solo emergenze: cardiologia, oncologia, pediatria, trapianti. Dal 2011 al 2015, oltre 42 mila pazienti hanno ricevuto trattamenti in Israele, con un incremento del 37% rispetto agli anni precedenti. Nel 2016 le autorizzazioni furono quasi 94 mila, a cui vanno aggiunti i familiari che accompagnavano i malati. Numeri che raccontano una realtà ignorata: nel Paese dipinto solo come “occupante e carnefice”, centinaia di migliaia di palestinesi hanno trovato la possibilità di sopravvivere. Il paradosso di chi accusa e chi cura È la contraddizione che nessuno ama affrontare. Da un lato, piazze e campus urlano al “genocidio”. Dall’altro, gli ospedali israeliani che aprono le porte a malati provenienti da Gaza e Cisgiordania. Non si tratta di propaganda, ma di cartelle cliniche. Bambini con malformazioni cardiache, donne sottoposte a chemioterapia, pazienti dializzati. Il programma “Save a Child’s Heart”, ad esempio, ha salvato migliaia di bambini palestinesi affetti da gravi patologie cardiache. Storie che raramente fanno notizia perché incrinano la narrazione monolitica: Israele come nemico assoluto, i palestinesi solo come vittime passive. Il silenzio dell’indignazione Chi parla di apartheid non spiega come mai ogni giorno centinaia di ambulanze palestinesi attraversino i checkpoint per raggiungere ospedali israeliani. Chi accusa Israele di praticare una “politica di sterminio” evita di citare che proprio lì, a Tel Aviv o a Gerusalemme, migliaia di palestinesi hanno trovato la cura che nei loro territori non esiste. La realtà è che l’indignazione è selettiva. Le morti fanno notizia, le guarigioni no. Il dolore è utile per la politica, la vita salvata no. E così questa verità scomoda rimane ai margini. Un dato che pesa come un macigno Se mettiamo insieme decenni di permessi umanitari, ricoveri, terapie e interventi, la cifra diventa enorme: centinaia di migliaia di palestinesi in settant’anni. Forse un milione. Un fiume di vite attraversate dal paradosso: chiedere aiuto a chi, sul piano politico, viene additato come nemico. È il segno di una realtà che non si piega agli slogan. Israele non è solo carri armati e operazioni militari. È anche corsie di ospedali, reparti pediatrici, chirurghi che operano senza chiedere passaporto politico. La verità che non conviene Questa è la parte della storia che non entra nei cortei. Perché complica le semplificazioni. Perché mette in crisi la narrazione del male assoluto. Perché costringe a guardare a Israele non solo come Stato militare, ma come Paese che cura anche i figli dei suoi nemici. È una verità che pesa come un macigno e che nessuno vuole maneggiare. Perché ammetterla significherebbe riconoscere che, anche dentro un conflitto feroce, c’è uno spazio di umanità che non si lascia ridurre a slogan. E allora meglio il silenzio. Meglio ignorare. Meglio continuare a gridare alla piazza che Israele uccide, dimenticando che Israele, ogni giorno, salva.

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