C’è stato un tempo in cui il male era riconoscibile. Lo vedevi in divisa, con le mani insanguinate, con i simboli cuciti sul braccio. Hitler, Stalin, Pol Pot: non serviva un grande coraggio per chiamare male ciò che era male. Bastava guardare, bastava sopravvivere al rumore delle camere a gas, alle fosse comuni, ai campi di prigionia.
Oggi non è più così. Il male non urla, sussurra. Non si presenta con il volto del carnefice, ma con il sorriso del benefattore. Non ti dice: “Voglio distruggerti”. Ti dice: “Lo faccio per proteggerti”. E tu abbassi la guardia. Ti lasci convincere. Ti fidi.
Il male oggi si traveste. Si veste di pace, di diritti, di giustizia sociale. Frequenta talk show, scrive editoriali nei giornali, organizza conferenze nelle università. Ha imparato a usare i social, a parlare il linguaggio della viralità, a nascondersi dietro gli slogan. Non brucia villaggi, spegne coscienze. Non alza manganelli, cancella parole. Non occupa territori, occupa le menti.
Lo vedi ogni giorno. Lo hai visto il 7 ottobre, quando civili israeliani sono stati massacrati, donne violentate, bambini sequestrati. E hai sentito le voci che, invece di condannare, hanno spiegato. Giustificato. Normalizzato. “Resistenza”, lo hanno chiamato. Come se stuprare una donna davanti ai figli fosse resistenza. Come se rapire neonati fosse legittimo in nome di una causa.
Eppure il coro si è acceso: accademici, giornalisti, politici. Tutti pronti a spostare il peso morale dalla parte sbagliata. Israele trasformato in aggressore, Hamas promosso a vittima. Un rovesciamento totale della realtà. Questo è il male di oggi: la capacità di cambiare il significato delle parole fino a renderle irriconoscibili.
Il male si è insediato nelle università, nei media, nei social. In Italia, ad esempio, lo hai visto nei rettori che bloccano atenei in nome dell’attivismo politico, trasformando istituzioni di cultura in sezioni di partito. Lo hai visto nei giornalisti che si spacciano per difensori della verità, ma sono megafoni di Hamas, del Cremlino, di Teheran. Lo hai visto nei politici che predicano democrazia e solidarietà, salvo poi difendere regimi illiberali, purché anti-occidentali.
Oggi il male non è più il dittatore che ti opprime. È il collega che condivide un post falso, è l’influencer che ti racconta Gaza come fosse un fumetto, è l’opinionista che parla di genocidio con lo stesso tono con cui pubblicizza un libro. È l’indignazione prêt-à-porter che scorre nei feed, è la piazza che urla slogan senza conoscere i fatti, è la narrazione che ribalta il mondo.
Il male non ha più bisogno di carri armati. Ha bisogno di like. Non ha più bisogno di catene di ferro. Ha bisogno di catene mentali. Non ti costringe a obbedire, ti convince che obbedire è giusto. Non ti minaccia, ti blandisce. E quando provi a opporre resistenza, sei tu l’estremista, il fanatico, l’intollerante.
Il problema non è che non lo riconosciamo. È che non vogliamo riconoscerlo. Perché chiamarlo col suo nome ci costringerebbe a combatterlo. E combattere oggi non significa imbracciare un fucile, significa prendere posizione, assumersi il rischio di essere impopolari, scomodi, isolati. Meglio allora dire che “dipende dai punti di vista”. Che la verità è relativa. Che non ci sono buoni e cattivi, ma solo sfumature.
È la resa morale. È il rifiuto del giudizio. È il relativismo che diventa anestesia. E quando smetti di giudicare, smetti di vedere. Il male diventa invisibile perché ti sei convinto che non esiste.
E così Israele diventa l’aggressore. I terroristi diventano partigiani. I giornalisti di regime diventano voci libere. Le università militanti diventano templi della coscienza critica. Il male ha vinto la battaglia del linguaggio, e noi abbiamo applaudito.
Guardati intorno: vedi studenti che sfilano con kefiah e bandiere, credendo di lottare per la libertà mentre si fanno strumenti della propaganda jihadista. Vedi editorialisti che spiegano la geopolitica come se fosse un videogioco, dove tutto si riduce a “potere contro potere”. Vedi politici che non prendono posizione, che parlano di neutralità, che predicano equidistanza: in realtà scelgono di stare dalla parte più comoda, quella che non costa voti.
E intanto, nelle strade italiane, ebrei vengono insultati, minacciati, aggrediti. Ma guai a dire che questo è antisemitismo. No: per la narrazione dominante, è “espressione di rabbia sociale”. Ancora una volta il male viene mascherato, reso accettabile.
Il male non ha più volto. Non ha più la brutalità nuda dei campi o dei gulag. Ha la faccia pulita della retorica, le mani curate dei salotti televisivi, la voce calma dei professori universitari. E proprio per questo è più difficile da combattere. Perché ti convince che non è male. Ti dice che è progresso, che è coscienza civile, che è solidarietà.
Ma non è così. È lo stesso male di sempre: la distruzione dell’uomo, la cancellazione della verità, la complicità con l’odio. Solo che oggi ha capito che la forza non serve più. Basta confondere. Basta ribaltare i ruoli. Basta chiamare male ciò che è bene e bene ciò che è male.
E noi ci siamo cascati.
Il male non ha vinto con le armi. Ha vinto con le parole. E finché continueremo a chiamarlo “opinione”, “diversità culturale”, “lotta politica”, sarà lui a governare.
Perché il male non ha più volto. Ha talk show, piazze, bandiere, hashtag. E ha un alleato imbattibile: la nostra vigliaccheria.
“Scrisse, scriveva, ritenne fin da ragazzo che fosse meglio osservare il mondo attraverso la scrittura. Poi, più grande, lesse le emozioni della vita posandole su un foglio di carta: non sa ancora se fu un errore ma comincia a nutrire seri dubbi sulle sue scelte." Non c’è più tempo si è detto e il tempo è volato via. Sono rimaste solo queste parole come cornice ad un uomo sconosciuto che non è mai riuscito a incontrare se stesso. Pensò che almeno qui lei capisse, continuò a crederlo contro qualunque evidenza. Che qui fosse finalmente diverso e senza fine, che qui fosse essenza vera e che solo questo importasse. Scrive ancora di tanto in tanto, poi socchiude gli occhi e guarda lontano ma non riesce più a scrivere quel che vede. Vincenzo voleva scrivere fin da ragazzino, gli piaceva l’idea del foglio, della penna e del pensiero che vi si fermava sopra. A lungo credette che anche il più piccolo evento serbasse in sè l’idea della vita e dei suoi misteri: scriverne era una magnifica a...
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