I tedeschi hanno visto le loro città ridotte in polvere. Berlino divisa, Amburgo devastata, Dresda cancellata dal fuoco. I giapponesi hanno visto Hiroshima e Nagasaki dissolversi in una nube atomica. Due popoli che avevano seminato guerra e morte hanno raccolto la distruzione assoluta. Eppure, dopo il 1945, hanno imboccato un’altra strada: la ricostruzione. Non un percorso di bontà, non un risveglio morale improvviso. Una scelta fredda, necessaria, dettata dalla consapevolezza che l’odio non avrebbe dato pane né futuro.
La Germania Ovest ha puntato sull’industria, sulla disciplina, sull’Europa. Il Giappone ha scelto la tecnologia, l’organizzazione, la trasformazione culturale. Entrambi hanno accettato la sconfitta come punto zero. Da lì hanno scritto un altro destino.
Il paradosso palestinese
I palestinesi vivono in una sospensione permanente. Nessuna resa, nessun “anno zero”, nessuna fase costituente che imponga di guardarsi allo specchio. Solo una lunga sequenza di sconfitte mai accettate, trasformate in rancore eterno. Dal 1948 in poi, la loro identità politica è stata definita più dal “no” che dal “sì”. No al riconoscimento, no ai compromessi, no a un progetto alternativo che non fosse la guerra a Israele.
La leadership, da Arafat a Hamas passando per l’Autorità Palestinese, ha scelto la via più semplice: fare del dolore un capitale politico. Ogni lutto, ogni sconfitta, ogni campo profughi diventava carburante ideologico. Non per ricostruire, ma per perpetuare il conflitto.
Gli aiuti internazionali, miliardi di dollari per decenni, non si sono trasformati in un Piano Marshall. Non fabbriche, non infrastrutture, non scuole moderne. Ma stipendi per apparati, tunnel per armi, rendite clientelari. Una macchina di sopravvivenza, non di rinascita.
Risentimento contro responsabilità
Il risentimento è un collante, ma non è cemento. Unisce nell’odio, non costruisce nel futuro. I tedeschi e i giapponesi hanno scelto la responsabilità collettiva: riconoscere il disastro, interiorizzare la disfatta, trasformarla in ripartenza. Non per virtù, ma perché la storia li aveva messi all’angolo.
I palestinesi non hanno fatto questo salto. La loro narrazione resta tutta in negativo. L’identità è fondata sull’opposizione a Israele, sull’accusa all’Occidente, sul rancore verso i vicini arabi accusati di tradimento. Una catena di colpe esterne che serve a coprire l’assenza di responsabilità interna.
La vera domanda non è: “perché non deve valere per i palestinesi?”
La domanda giusta è: cosa impedisce che valga anche per loro?
Forse la mancanza di un trauma risolutivo come Hiroshima o la resa incondizionata di Berlino. Forse la presenza continua di sponsor esterni che usano la causa palestinese come pedina geopolitica. Forse la paura che, senza nemico, l’identità palestinese si dissolva. Perché se la costruisci solo sull’odio, senza progetto politico ed economico, cosa resta quando il nemico non c’è più?
La storia dimostra che si può rinascere dall’abisso più oscuro. Germania e Giappone lo hanno fatto, trasformando la vergogna in forza. I palestinesi hanno avuto decenni di occasioni: Oslo, Camp David, i ritiri israeliani da Gaza. Ogni volta hanno scelto la guerra al posto della responsabilità. Ogni volta hanno preferito restare prigionieri della narrativa vittimaria invece di aprire un futuro.
Il risultato è un popolo ostaggio. Ostaggio di leader che vivono del conflitto. Ostaggio di una retorica che trasforma ogni sconfitta in bandiera. Ostaggio di una comunità internazionale che alimenta la sopravvivenza ma non pretende il cambiamento.
Germania e Giappone hanno dimostrato che l’odio non paga, che la ricostruzione è possibile anche sulle macerie più profonde. I palestinesi, invece, restano intrappolati in un eterno dopoguerra che non diventa mai dopoguerra. Perché? Perché nessuno ha avuto il coraggio di dire basta. Perché conviene a troppi che restino prigionieri del risentimento.
La strada è ancora lì, ma non basta guardarla. Serve imboccarla. La domanda vera è: quanto ancora vorranno vivere da prigionieri, invece di scrivere la loro rinascita?
“Scrisse, scriveva, ritenne fin da ragazzo che fosse meglio osservare il mondo attraverso la scrittura. Poi, più grande, lesse le emozioni della vita posandole su un foglio di carta: non sa ancora se fu un errore ma comincia a nutrire seri dubbi sulle sue scelte." Non c’è più tempo si è detto e il tempo è volato via. Sono rimaste solo queste parole come cornice ad un uomo sconosciuto che non è mai riuscito a incontrare se stesso. Pensò che almeno qui lei capisse, continuò a crederlo contro qualunque evidenza. Che qui fosse finalmente diverso e senza fine, che qui fosse essenza vera e che solo questo importasse. Scrive ancora di tanto in tanto, poi socchiude gli occhi e guarda lontano ma non riesce più a scrivere quel che vede. Vincenzo voleva scrivere fin da ragazzino, gli piaceva l’idea del foglio, della penna e del pensiero che vi si fermava sopra. A lungo credette che anche il più piccolo evento serbasse in sè l’idea della vita e dei suoi misteri: scriverne era una magnifica a...
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