Il Presidente dell’Ordine dei Giornalisti, Carlo Bartoli, ha dichiarato che l’esposto disciplinare non deve essere usato per “mettere a tacere voci sgradite”.
Sembra un principio nobile.
Ma è un’operazione retorica perfetta: trasformare ogni critica documentata a un giornalista in un atto eversivo.
Chi presenta un esposto, secondo Bartoli, non cerca giustizia. Cerca di “intimidire”.
Chi chiede rigore, trasparenza, correttezza, diventa un nemico del pluralismo.
Come se pluralismo significasse poter raccontare balle impunemente, purché con penna autorevole.
E invece no, presidente. Qui il problema è un altro.
Il problema è che il giornalismo italiano è pieno di voci che non sbagliano per distrazione, ma per convinzione politica.
E i casi sotto gli occhi di tutti lo dimostrano:
Alcuni errori clamorosi (e mai puniti):
Francesca Albanese parla all’ONU di genocidio israeliano senza citare Hamas, né il 7 ottobre.
I giornali italiani rilanciano le sue parole senza contestualizzazione, senza critica, senza fac-checking.
TG1 e TG3 titolano “Israele colpisce ospedale”, rilanciando la bugia di Hamas sull’attacco all’Al-Ahli.
Solo 24 ore dopo si scopre che l’ospedale era integro e la strage era causata da un razzo fallito della Jihad Islamica.
Nessuno chiede scusa. Nessun richiamo. Nessuna rettifica in prima serata.
Reporter da Gaza parlano di “bambini uccisi” senza dire che molti avevano 16–17 anni, armati, arruolati, usati da Hamas.
Ma guai a distinguere. L’importante è alimentare la narrazione.
Editorialisti da salotto parlano di “apartheid israeliano”, ma non menzionano mai che a Gaza non si vota dal 2006, che l’opposizione viene repressa, che le donne vengono lapidate e gli omosessuali torturati.
Il punto non è l’esposto. Il punto è l’intoccabilità ideologica.
Bartoli non si chiede perché così tante persone stiano presentando esposti.
Forse – dico forse – perché il giornalismo è diventato un’arma politica, mascherata da cronaca.
Perché chi scrive per testate militanti può insultare Israele, distorcere i fatti, ignorare gli ostaggi -e poi piangere censura se qualcuno glielo fa notare.
Eppure, se un giornalista avesse minimizzato gli stupri del 7 ottobre o ironizzato sulla Shoah, sarebbe stato crocifisso in pubblico.
Ma se fa lo stesso con le vittime israeliane, diventa un “pluralista coraggioso”.
Il pluralismo non è dire tutto.
È dire tutto quello che è vero, anche quando non conviene alla propria parte politica.
Un giornalista che mente, omette o distorce per militanza ideologica, non è una “voce scomoda”.
È una minaccia alla credibilità dell’informazione.
E chi lo segnala, con strumenti legittimi come l’esposto, non è un censore.
È un cittadino che pretende giustizia.
In un Paese dove l’Ordine difende solo chi ha la tessera giusta.
“Scrisse, scriveva, ritenne fin da ragazzo che fosse meglio osservare il mondo attraverso la scrittura. Poi, più grande, lesse le emozioni della vita posandole su un foglio di carta: non sa ancora se fu un errore ma comincia a nutrire seri dubbi sulle sue scelte." Non c’è più tempo si è detto e il tempo è volato via. Sono rimaste solo queste parole come cornice ad un uomo sconosciuto che non è mai riuscito a incontrare se stesso. Pensò che almeno qui lei capisse, continuò a crederlo contro qualunque evidenza. Che qui fosse finalmente diverso e senza fine, che qui fosse essenza vera e che solo questo importasse. Scrive ancora di tanto in tanto, poi socchiude gli occhi e guarda lontano ma non riesce più a scrivere quel che vede. Vincenzo voleva scrivere fin da ragazzino, gli piaceva l’idea del foglio, della penna e del pensiero che vi si fermava sopra. A lungo credette che anche il più piccolo evento serbasse in sè l’idea della vita e dei suoi misteri: scriverne era una magnifica a...
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