Infilò la chiave nella toppa senza alcuna esitazione, aveva esitato abbastanza nelle ore precedenti. Il palazzo lo conosceva bene, anche troppo, non ci entrava da quasi un anno, cioè dalla morte di sua madre; ogni tanto uno sguardo alla facciata passandoci davanti con la macchina quasi fosse un gioco, sciocco o macabro non si era mai risolto a definirlo.
- Dottore deve farmi un inventario delle cose presenti nell’appartamento mi scusi, serve per avviare le pratiche di successione, lo sa.
- Lo so
- Quindi se non le dispiace visto che le feste sono finite e anche la befana è trascorsa…
- Quale befana?
- L’epifania dottore, l’epifania
- Ah, la manifestazione intende, la rivelazione
- Come scusi?
Lo sapeva perfettamente, in certi momenti era assente, con i suoi pensieri ciondolanti in un altrove personale di cui non importava mai niente a nessuno. Nemmeno a sua madre? Beh forse a lei qualcosa importava ma lei sapeva prenderlo, almeno fino a qualche anno prima. Quanti?
- Dottore perdoni, mi ascolta? L’inventario le dicevo che ne ho bisogno per…
- D’accordo. Ci vado domani e le faccio sapere. Click!
Perché era sempre così brusco in certe situazioni e così incerto in altre? Non dipendeva dall’importanza obiettiva dell’argomento ma dal suo sentire intimo. Che non conosceva nessuno. Così era diventato da tempo un uomo strano e insopportabile tout court, imprevedibile o troppo scontato in certe sue alzate di testa senza “validi e comprensibili” motivi. Nulla era cambiato nelle stanze della sua adolescenza e in quelle dell’appartamento che stava visitando e questo non gli piaceva. Avrebbe dovuto sentirsi in qualche modo confortato, protetto da solidi principi radicati nel tempo ma non era così. La sua vita aveva preso una direzione diversa appena entrato nella prima giovinezza, allo scambio ferroviario l’addetto forse stava pensando ad altro, forse lo aveva fatto apposta ma il suo treno era finito su un’altra tratta.
Accese la luce, le dita arrivarono subito dove dovevano: se ne meravigliò. Si stupiva sempre dell’automatismo di alcuni gesti suoi quasi non gli appartenessero o gli raccontassero di un altro uomo e di un’altra vita. Dal corridoio passò davanti alla cucina senza degnarla di uno sguardo, la sua stanza di ragazzo era poco oltre, il santuario delle cose perdute si trovava appena pochi metri più in là. Aveva paura di entrarvi, il motivo della sua assenza in quell’anno ormai trascorso era proprio la paura di rivedersi. E non piacersi.
- Lasci sempre la luce accesa. Possibile che debba ricordartelo ogni volta?
- Ah, sì scusami
- Ceni con noi stasera?
- No mamma, ho già un impegno ma domani sono qua sicuro.
Doveva mitigare la delusione che aveva visto spandersi sul viso della donna. Lei gli si avvicinò leggera e gli passò una carezza sulla spalla, faceva sempre così: una rassegnazione contenuta dentro un breve alito di speranza. C’era ancora forte la traccia di sua madre disegnata tra il corridoio e il salotto, tra la sua adolescenza e il resto. Dopo aver attraversato il confine del distacco la traccia restava, a volte lo segnava senza nessun preavviso, senza nessuna clemenza. E lui si sentiva a disagio, come per non aver ammesso una colpa segreta, un gesto che avrebbe potuto fare facilmente ma non aveva mai compiuto. Come mai i suoi passi nell’appartamento non facevano rumore? Chi era entrato per l’inventario aveva probabilmente sbagliato indirizzo, nell’interno num. 28 solo bilanci esistenziali di un figlio rimasto a metà. Avere la testa piena di voci chiare in un silenzio crudo e freddo lo spinse a rifugiarsi in salotto: girò lo sguardo attorno e comprese in quel momento che non sarebbe mai stato in grado di fare alcun inventario.
- Desideravi che mi sposassi
- No desideravo fossi completato perché tu da solo…
- Ci ho provato mamma
- Partendo da presupposti completamente sbagliati – lo diceva con una dolcezza mai più trovata. - Non serve rimescolare vecchie cose
- Forse hai ragione ma noi andremo via un giorno, riuscirai ad entrare qui con equilibrio diverso?
La domanda non aveva mai avuto risposta degna, era in ascolto come allora, come sempre. Era solo in quell’abisso, solo in quella casa, solo in quella vita. L’unica che aveva o si era costruito. Si stava concependo come un’ombra, una sorta di suicidio scontato senza spettatori. Non sopportava più gli inviti ad equilibrio, compostezza, misura, solidarietà, civiltà…amore. Gli avevano spiegato il meccanismo infinite volte ma era tardi, troppo tardi: nessun interlocutore, nessuna analisi, nessuna comprensione, salotto vuoto, corridoio spento, cucina vuota, il suo nido abbandonato per sempre al numero civico 28. Alzarsi e scivolare in silenzio tra la sua vita, guidare la sua ombra fino all’uscio era il consueto automatismo, funzionava benissimo: abbassare la maniglia, infilare la chiave nella toppa, girarla per tre volte, girarsi. Scendere le scale. La fuga era iniziata.