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CONTRADDIZIONI

Gaza, la verità sepolta sotto 30 contraddizioni L’anomalia palestinese che nessuno osa raccontare: più aiuti, più foto, più risoluzioni ONU di qualsiasi altro conflitto, eppure nessuno sviluppo. C’è una parola che domina da decenni quando si parla di Gaza: eccezione. Non un territorio come gli altri, non un conflitto come gli altri, non un popolo come gli altri. Gaza è diventata una fabbrica di narrazioni che regge solo fino a quando non si mettono in fila i numeri, i fatti, le incongruenze. Dietro l’immagine patinata della “prigione a cielo aperto” c’è un paradosso gigantesco: miliardi di dollari di aiuti, migliaia di ONG, milioni di fotografie e tonnellate di risoluzioni ONU. Eppure Gaza resta povera, instabile, governata da un regime che non vuole elezioni e non vuole uno Stato, se non sulle macerie di Israele. Abbiamo raccolto 30 contraddizioni. Trenta anomalie che, una volta accostate, formano il ritratto più scomodo di questo conflitto. La prigione che scava tunnel La frase ricorrente è che Gaza sia “una prigione a cielo aperto”. Eppure negli stessi anni in cui i media parlavano di assedio, Hamas costruiva una città parallela sotterranea: centinaia di chilometri di tunnel in cemento e acciaio, gli stessi materiali che avrebbero dovuto servire a ospedali e scuole. Non una prigione, ma una fortezza militare invisibile. Il blocco che non blocca Ogni giorno, anche nei mesi più duri della guerra, entrano camion di aiuti da Israele ed Egitto. Cibo, carburante, medicinali. Nonostante questo, l’80% della popolazione dipende da sussidi. La fame non è il frutto dell’assenza di cibo, ma della sua gestione politica: chi controlla gli aiuti, controlla la popolazione. Stato negato o Stato rifiutato? Nel 2005 Israele si è ritirato da Gaza. Smantellati gli insediamenti, sgomberati i militari. Era la chance storica di costruire istituzioni, infrastrutture, futuro. Risultato? L’ascesa di Hamas, la cacciata di Fatah e la fine di ogni progetto statale. Non è uno Stato negato, è uno Stato rifiutato. Elezioni, democrazia, mito “Hamas è legittimo perché eletto”. Vero, ma nel 2006. Da allora, silenzio. Diciannove anni senza urne, con repressione dei dissidenti e intimidazione dei giornalisti. Gaza non è una democrazia sospesa, è una dittatura militare consolidata. Vittime civili e contabilità truccata I numeri delle vittime arrivano da un’unica fonte: il ministero della salute di Hamas. Vengono presi per oro colato, senza verifica indipendente. Ma molti morti non sono causati da Israele: centinaia di razzi cadono dentro Gaza stessa, uccidendo civili. Quei numeri, però, entrano nelle statistiche contro Israele. L’ONU a senso unico UNRWA è l’agenzia più grande mai dedicata a un singolo popolo rifugiato. Trenta mila dipendenti per due milioni di abitanti. Un’anomalia storica: invece di integrare, perpetua lo status di rifugiati. Non esiste nulla di simile per Siria, Yemen, Sudan. Aiuti miliardari, zero sviluppo In trent’anni Gaza ha ricevuto miliardi. Ma non ci sono centrali elettriche indipendenti, né un’economia autosufficiente. L’industria principale resta il contrabbando e la guerra. Cemento e acciaio vanno nei tunnel, non nelle case. Gli aiuti alimentano la sopravvivenza, non lo sviluppo. Le ONG, moltiplicatori di assistenza Nessuna area al mondo ha una densità simile di ONG e giornalisti per abitante. Eppure i risultati sono minimi. L’unico prodotto esportabile in quantità da Gaza non sono merci, ma immagini. Il business delle immagini Gaza è la guerra più fotografata del pianeta, proporzionata alla sua dimensione. Negli archivi di Getty e Alamy ci sono oltre 1,6 milioni di foto su Gaza. Yemen, con milioni di sfollati, ne ha meno di 60.000. Sudan appena 26.000. La sproporzione è indecente: il dolore palestinese è ipervisibile, quello yemenita invisibile. La serialità è evidente: funerali, madri urlanti, macerie. Fotogrammi ripetuti per decenni, trasformati in linguaggio universale del conflitto. Non realtà complessa, ma dolore standardizzato per il mercato. Cultura del martirio Scuole, media, manifesti di quartiere: la glorificazione del martire non è eccezione, è sistema. “Amore per la vita” a parole, ma “morte eroica” come pedagogia quotidiana. Ospedali come basi L’ospedale Shifa e altri centri sono stati più volte segnalati come sedi di comando e deposito di armi. Una violazione di tutte le convenzioni, ma regolarmente ignorata nella narrazione internazionale. Aiuti rivenduti al mercato nero Saccchi di farina, medicinali e pacchi umanitari finiscono nei mercati, tassati da Hamas. La popolazione paga due volte: prima con la miseria, poi con la corruzione. Cessate il fuoco bruciati Ogni tregua è seguita da lanci di razzi. Ogni negoziato per la pace è sabotato dall’uso degli ostaggi come leva. La narrazione della “ricerca del cessate il fuoco” non regge: è sempre strumentale. Confronto che non perdona Gaza: oltre 1,6 milioni di immagini negli archivi, miliardi di aiuti, più di 30.000 dipendenti ONU dedicati. Yemen: guerra, carestia, milioni di sfollati. Poche decine di migliaia di immagini, quasi zero mobilitazione internazionale. Sudan: una delle peggiori crisi alimentari del mondo. Invisibile ai media. La sproporzione è netta: Gaza monopolizza l’attenzione e i fondi, Yemen e Sudan scompaiono. La contraddizione suprema Più Gaza è raccontata, meno Gaza è conosciuta. La macchina degli aiuti, delle ONG, dei media e delle immagini produce un paradosso unico: un conflitto che non si risolve perché è troppo utile che resti irrisolto. Il risultato è che l’opinione pubblica globale vive in un eterno presente: ogni giorno lo stesso funerale, la stessa maceria, la stessa madre disperata. Non c’è spazio per la domanda più ovvia: perché, nonostante tutto, Gaza resta sempre uguale a sé stessa? Più si parla di Gaza, meno si conosce Gaza. Gaza è un’anomalia storica. Ha avuto più risorse, più attenzioni e più visibilità di qualsiasi altro conflitto. Eppure resta povera, instabile, governata da un regime terroristico che non vuole né elezioni né pace. La verità è scomoda ma inevitabile: il dolore palestinese è diventato un business globale. E la tragedia non finisce, perché troppo potente è la macchina che vive della sua perpetuazione.

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