Onestamente, trovo difficile credere che il possesso (o meno) dell’arma nucleare da parte dell’Iran sia stato il vero discrimine per un intervento israeliano. Quarantasei anni. Quarantasei anni di provocazioni, attacchi proxy, finanziamenti al terrorismo. Quarantasei anni in cui il regime iraniano ha minacciato, aggredito e negato l’esistenza stessa di Israele. E allora, mi chiedo: perché l’attacco solo adesso?
Quello che mi sconcerta, però, è un’altra cosa: la minimizzazione del 7 ottobre, dei razzi di Hezbollah, dei bombardamenti Houthi—tutti finanziati da Teheran—come se fossero mere sciocchezze, fastidi marginali. E in questo contesto, l’intervento di Cecilia Sala mi sembra ancora più surreale.
Si parla di uno scollamento tra regime e popolazione, quasi a giustificare con un fatalismo rassegnato l’idea che un governo islamista—che la stessa autrice definisce estraneo alla Persia, un paese storicamente più vicino all’Europa che al mondo arabo—possa rapire, reprimere, uccidere arbitrariamente.
No, non si tratta di dipingere Israele come “liberatore”.
Ma è altrettanto inaccettabile normalizzare un potere parassitario che soffoca un intero popolo, che strumentalizza la religione per mantenere una morsa autoritaria, che esporta violenza ben oltre i suoi confini.
La domanda è: perché questa doppia misura? Perché alcuni regimi possono essere criticati, mentre altri vengono tacitamente accettati come fatalità?
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