Negli ultimi anni, osservando l'evoluzione dei sistemi democratici, emerge un fenomeno sempre più preoccupante: la mercificazione della politica. L'idea che il consenso si costruisca come si costruisce il successo di un prodotto commerciale — studiando gusti, tendenze, bisogni superficiali — sta svuotando la democrazia della sua funzione più nobile. Ho letto tempo fa un saggio che analizzava con lucidità questa trasformazione: la logica della domanda e dell'offerta, un tempo confinata ai mercati economici, ha ormai colonizzato il mercato elettorale.
I partiti, anziché orientare l'opinione pubblica con idee solide e visioni di lungo periodo, si sono trasformati in fornitori di prodotti politici, modellando il proprio messaggio in base ai sondaggi e alle emozioni immediate dell'elettorato. È la logica della politica del polling: governare non più per convinzione, ma per convenienza, inseguendo i dati, non i principi.
Questa deriva riduce la democrazia a una transazione commerciale, ne svilisce il ruolo educativo e la svuota della sua funzione trasformativa. La politica dovrebbe guidare, non limitarsi a inseguire.
Il caso italiano: populismo e antisemitismo come "prodotti" elettorali
Un esempio emblematico di questa tendenza si osserva nel panorama politico italiano. Basti pensare all'ascesa di Giuseppe Conte, che ha saputo cavalcare con abilità l'onda del populismo, trasformandosi da tecnico di governo a interprete — o, forse, specchio — degli umori più viscerali del paese. Sempre più spesso, nel suo repertorio retorico, compaiono toni ambigui, ammiccamenti a pulsioni antisistema e l'antisemitismo. Non si tratta di scivoloni isolati, ma del sintomo di una dinamica globale: i leader non correggono più le derive più pericolose dell'elettorato, ma le assecondano. In nome del consenso.
Eppure, un partito o un leader che ambiscano a operare per il bene del paese dovrebbero avere il coraggio di resistere a questa logica opportunistica. Dovrebbero saper dire no anche quando il sì conviene alle urne, ma tradisce i valori.
Il PD e la rincorsa sterile ai 5 Stelle: una crisi di identità
Emblematica, in questo senso, è anche la crisi identitaria del Partito Democratico. Di fronte all'avanzata dei populismi, il PD sembra incapace di offrire una rotta autonoma e riconoscibile. Al contrario, si lascia tentare dalla rincorsa ai 5 Stelle, adottando spesso il loro linguaggio, inseguendo le loro battaglie, perdendo per strada coerenza e visione.
Questa strategia difensiva non solo indebolisce la credibilità del PD, ma alimenta la percezione che la politica sia un gioco di posizionamenti tattici, senza principi né progettualità. E quando anche chi dovrebbe rappresentare un'alternativa si piega alla logica del marketing elettorale, lo spazio per un vero confronto sulle idee si restringe sempre più.
Invertire questa deriva non è semplice, ma è necessario. Occorre ripensare radicalmente il rapporto tra leadership e cittadini. La politica non può ridursi a un supermercato del consenso, dove si acquistano slogan a basso costo e si barattano valori in cambio di qualche punto nei sondaggi.
I partiti devono tornare a essere scuole di democrazia, luoghi di formazione civile e politica, capaci di educare, ispirare e coltivare il pensiero critico. Solo così si potrà restituire dignità al dibattito pubblico e ricostruire un senso autentico di partecipazione democratica. Non si tratta di essere meno moderni, ma di essere meno superficiali. Di preferire la sostanza alla confezione. Di tornare, in una parola, a fare politica, non marketing.
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