Perchè i Paesi arabi hanno scaricato i palestinesi e lasciato Israele con il cerino in mano?
Accolti in nome della solidarietà panaraba, poi rigettati come elemento destabilizzante. Dalla Giordania al Kuwait, dal Libano alla Siria, i palestinesi sono stati prima ospitati, poi emarginati o espulsi. Una storia di sospetto, conflitti interni e fratture geopolitiche.
Il conflitto israelo-palestinese è da decenni al centro della retorica panaraba. Ma dietro le dichiarazioni ufficiali, le bandiere issate e gli appelli alla liberazione, si nasconde una verità meno comoda: il mondo arabo non ha mai veramente integrato i palestinesi. E spesso li ha espulsi.
Lo ha fatto in modo brutale, come in Giordania durante il Settembre Nero del 1970. Lo ha fatto in modo sistematico, come in Kuwait dopo la guerra del Golfo. Lo ha fatto in modo strisciante, come in Libano, confinandoli per decenni nei campi profughi sotto sorveglianza.
La causa palestinese, simbolo di unità regionale, si è trasformata per molti governi arabi in un fattore di destabilizzazione interna, una minaccia da tenere a distanza.
I “fratelli” sono diventati ospiti scomodi, e la solidarietà si è sciolta davanti al rischio del caos.
Kuwait: la frattura del 1990 - Tra gli anni Cinquanta e Ottanta, il Kuwait è tra i Paesi che più accolgono i palestinesi: decine di migliaia trovano lavoro, soprattutto nei settori dell’istruzione, dell’amministrazione e dell’industria petrolifera. Ma tutto cambia nel 1990, con l’invasione del Paese da parte dell’Iraq di Saddam Hussein.
Mentre la comunità internazionale condanna l’aggressione, la leadership palestinese – guidata da Yasser Arafat – si schiera con Saddam. Un errore politico disastroso. Al termine della guerra, il Kuwait espelle circa 200.000 palestinesi, considerati collettivamente responsabili di quel “tradimento”. Licenziamenti di massa, chiusura di scuole, rifiuto dei visti: un’epurazione silenziosa, ma capillare.
Giordania: Settembre Nero - Anche la Giordania aveva aperto le porte ai palestinesi dopo la Nakba del 1948. Non solo li aveva ospitati, ma aveva concesso loro la cittadinanza, integrandoli nel tessuto sociale. Per anni, l’equilibrio aveva retto. Fino a quando l’OLP, fondata proprio in terra giordana nel 1964, iniziò a comportarsi da Stato nello Stato.
L’organizzazione armata lanciava operazioni contro Israele dal territorio giordano, costruiva scuole, ospedali, servizi autonomi, e iniziava persino a sfidare apertamente la monarchia hashemita. La crisi esplose nel 1970, quando membri dell’OLP dirottarono tre aerei civili e li portarono in Giordania, facendoli esplodere dopo aver sequestrato i passeggeri.
Il re Hussein rispose con l’esercito: fu guerra aperta. Migliaia di miliziani palestinesi furono uccisi, l’OLP venne cacciata con la forza, e la fiducia tra Amman e i rappresentanti palestinesi si spezzò per sempre.
Libano: l’integrazione impossibile -
Dopo la cacciata dalla Giordania, molti palestinesi e la stessa OLP trovarono rifugio in Libano. Anche qui, però, la presenza palestinese si trasformò presto in fattore di conflitto. L’OLP si armò, si inserì nel delicatissimo equilibrio settario del Paese, e contribuì a far esplodere la guerra civile libanese (1975–1990).
Durante quel periodo, i campi profughi palestinesi divennero roccaforti militari, da cui partivano operazioni contro Israele e scontri con le milizie cristiane. L’invasione israeliana del 1982, con la strage di Sabra e Shatila, fu l’epilogo tragico di una presenza che non era mai stata realmente integrata.
Ancora oggi, i palestinesi in Libano non hanno diritto alla cittadinanza, non possono accedere a numerose professioni, e vivono in condizioni di segregazione in campi gestiti da milizie o autorità locali.
Muri invisibili, ma invalicabili
Accanto ai casi emblematici di Kuwait, Giordania e Libano, altri Paesi arabi hanno mantenuto un’accoglienza di facciata, dissimulando dietro dichiarazioni di solidarietà una realtà ben più rigida.
In Arabia Saudita, i palestinesi sono accettati solo come lavoratori temporanei, senza possibilità di integrazione o cittadinanza, mantenuti in una condizione di precarietà cronica.
In Siria, il campo di Yarmouk – un tempo considerato la “capitale dei palestinesi in esilio” – è stato spazzato via dalla guerra civile, con la popolazione dispersa e abbandonata.
In Egitto, il muro è più sottile, ma forse ancora più invalicabile: i palestinesi sono trattati come ospiti controllati, in particolare quelli di Gaza. Il valico di Rafah è sigillato per gran parte dell’anno, e il regime egiziano rifiuta ogni ipotesi di reinsediamento massiccio, temendo un'escalation nel Sinai e non volendo diventare la soluzione finale del problema palestinese.
La presenza di Hamas – considerata una diramazione dei Fratelli Musulmani, nemico interno del regime di al-Sisi – rende ogni apertura un rischio politico e militare inaccettabile.
Il risultato è ovunque lo stesso: muri invisibili, ma invalicabili, fatti di leggi, diffidenze, silenzi e confini chiusi. Una solidarietà araba a geometria variabile, dove l’accoglienza si ferma al microfono, ma non oltre i check-point.
Quello che emerge è un dato chiaro: il mondo arabo ha alzato muri attorno alla questione palestinese, non sempre di cemento, ma politici, legali, sociali e culturali.
Una causa sacrificata
La questione israelo-palestinese ha avuto un ruolo centrale in questo processo. Per decenni, i leader palestinesi hanno cercato alleanze nel mondo arabo per portare avanti la loro lotta. Ma l’utilizzo del territorio arabo come base per azioni armate ha finito per compromettere la fiducia con i governi ospitanti, preoccupati di attirare ritorsioni israeliane o rivolte interne.
Con il tempo, molti Stati arabi hanno preferito normalizzare i rapporti con Israele, come nel caso degli Accordi di Abramo, lasciando la questione palestinese sullo sfondo. I palestinesi, da simbolo della resistenza, sono diventati un problema da contenere.
Oggi, milioni di palestinesi vivono ancora in campi profughi nei Paesi arabi, senza cittadinanza, senza diritti, senza futuro. Non più solo vittime dell’occupazione israeliana, ma anche di un sistema arabo che li ha usati politicamente, e poi abbandonati.
La causa palestinese non è morta. Ma è stata silenziata, svuotata, messa ai margini. E non sempre dai nemici dichiarati.
Spesso, anche dai “fratelli”.
Il paradosso finale: chi ha aperto di più, ha pagato il prezzo più alto
Alla fine, il vero paradosso è questo:
Israele, il vicino che più di tutti ha aperto le porte ai palestinesi – per lavoro, per assistenza medica, per relazioni economiche e civili – è anche quello che ha pagato il prezzo più alto.
Mentre molti Paesi arabi hanno eretto muri politici e culturali, tenendoli a distanza in nome della stabilità, Israele ha convissuto direttamente con Gaza, con Cisgiordania, con la complessità della questione palestinese.
E da quella vicinanza sono venuti anche gli attacchi, le infiltrazioni, il terrorismo, le guerre cicliche.
Chi ha chiuso li ha evitati.
Chi li ha accolti, ha vissuto le conseguenze.
Una lezione amara, ma chiara: non sempre la solidarietà, o la convivenza, vengono ricambiate con la pace.
E in un Medio Oriente che si ricompone senza la Palestina al centro, Israele resta l’unico attore a fronteggiare ogni giorno un problema che gli altri hanno scelto semplicemente di ignorare.
Israele ha aperto, altri hanno chiuso.
E chi ha chiuso, ha evitato problemi.
Israele, invece, ha pagato.
Commenti
Posta un commento
L'autore del blog è andato via per sempre.