Nella nostra epoca, il culto della libertà individuale ha raggiunto toni quasi religiosi: "Io sono libero, nessuno può impormi nulla!" gridiamo, convinti di affermare un principio sacro e inviolabile. Ma cosa intendiamo davvero quando parliamo di libertà?
La libertà assoluta è un mito. Persino le parole che usiamo per proclamarla non sono nostre: le abbiamo ereditate, interiorizzate attraverso l’educazione, la cultura, il linguaggio stesso. I nostri pensieri, poi, non sfuggono alle leggi della biologia: le sinapsi, la densità neuronale, i neurotrasmettitori plasmano ciò che chiamiamo "libero arbitrio". Eppure, continuiamo a immaginarci come esseri completamente autonomi, dimenticando che ogni nostro gesto è una risposta a stimoli esterni o a condizionamenti interni.
In ambito sociale, la libertà non solo non esiste in forma pura, ma non la desideriamo neppure. Parliamo di "fare rete", di "comunità", di "solidarietà"—tutte metafore che evocano connessione, non rottura. Un essere umano isolato non è un eroe: è una creatura vulnerabile, destinata all’angoscia o all’estinzione. L’antropologia e la psicologia lo confermano: sopravviviamo solo perché apparteniamo a qualcosa di più grande di noi.
"L’uomo è libero solo quando riconosce i suoi legami" — scriveva il filosofo Emmanuel Lévinas.
"Libertà è partecipazione" — cantava Gaber.
Due espressioni diverse, ma unite da una verità semplice: l’io esiste solo in relazione al tu. Senza un "voi", non può esserci un "noi".
Il Settecento ci ha lasciato in eredità l’idea romantica del contratto sociale—un patto razionale tra individui liberi. Ma il Novecento, con i suoi totalitarismi e individualismi sfrenati, ha mostrato cosa accade quando quel patto si rompe: da un lato, la schiavitù della collettività imposta; dall’altro, la solitudine dell’egoismo assoluto.
La vera libertà, allora, non è l’assenza di vincoli, ma la capacità di negoziarli. Cedere qualcosa all’altro—un po’ di tempo, un po’ di spazio, un po’ di potere—e ricevere in cambio sicurezza, affetto, senso. Liberi non siamo quando corriamo nel vuoto, ma quando scegliamo con chi legarci.
Oggi si celebra l’uomo self-made, che si crea da solo e non deve nulla a nessuno. Eppure, persino il genio più solitario—un Nietzsche, un Emily Dickinson—ha avuto bisogno di interlocutori, reali o immaginari.
Nessuno pensa nel vuoto.
Forse, allora, dovremmo smettere di inseguire l’utopia di una libertà senza legami e iniziare a celebrare l’arte della dipendenza reciproca. Perché, come scriveva Bauman:
"La libertà senza sicurezza è una condanna. La sicurezza senza libertà è una prigione. La sfida è trovare l’equilibrio."
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