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TUTTI MORIMMO A STENTO -


L’11 gennaio di undici anni fa se ne andava il più grande di tutti. Un artista la cui versalità poetica prima e musicale poi non ha eguali in Italia e forse nel mondo: Fabrizio fu il prodotto di una generazione e di una cultura accesa ma riflessiva sul mondo che scorreva davanti, ma da lì in poi ci fu solo arte e genio allo stato puro. Non voglio trovare aggettivi e le mie lodi, confuse in mezzo a quelle interminabili di chi lo ama ( e sono una quantità) servono solo a coprire il rammarico per la sua assenza fisica tra noi. Mi sono tornati alla mente gli ellepi e il banco di regia dell’emittente radio da cui trasmettevo: ricordo perfettamente l’eccitazione del nuovo, il primo ascolto del volume 8° di Fabrizio de Andrè. Ci si guardava in faccia e si diceva “Perfetto! Che meraviglia.” Poi si continuava a parlarne per giorni e si capiva, si sentiva che quella era la musica, erano le parole della nostra generazione, che non poteva esserci modo più completo e diretto per raccontare i nostri giorni, il senso del reale e il metafisico, il buffo e l’amaro…l’amore fissato ed eterno in una dimensione che adesso, ancora adesso, stasera mi sembra consolante ed unica.

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Io guardo il cielo sopra di me e voglio aspettare che questa sera smaltata e sensuale si spenga e mi lasci il tempo di capire e giudicare. La mia vita dorme nell’altra stanza, qui si sente solo il ronzio del ventilatore di raffreddamento del Pc. Silenzio, che meraviglia, così sembra tutto lontano. Anche la rabbia politica e quella esistenziale. E’ il senso della vita che mi sfugge o forse non la so raccontare? Domani mi impegnerò, domani quando questo silenzio imbarazzante sarà terminato.